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Cos’è il talento innato e l’inganno della vocazione professionale

Cos'è il talento innato e l'inganno della vocazione professionale

La società odierna è diventata ciò che è diventata per vari motivi, ma uno di questi è senz’altro la specializzazione lavorativa. In particolare negli ultimi due secoli, la vita dell’individuo si è diversificata sempre meno, per volgere il suo sguardo solamente in un unico settore. In questo articolo, oltre che a parlare di specializzazione, cercherò di dare maggior risalto a concetti come il talento innato, vocazione, propensione lavorativa, personalità e perché no, anima.

Prima di cominciare voglio avvisare il lettore: quest’analisi personale è nata sotto forma di video, un video che non è mai stato pubblicato. Presi questa scelta per non impiegare troppo tempo, sia per quanto riguarda il mio sia quello dell’ascoltatore. Ora però ho deciso che il discorso merita molto tempo, sia del mio, sia di un potenziale lettore interessato. Quindi, ti chiedo di non cominciare la lettura se al momento non possiedi tempo ed energie indispensabili alla comprensione.

Tribù VS civiltà

Prima delle civiltà massificate l’uomo viveva in piccole tribù, poche decine di individui che fondavano la sopravvivenza sulla cooperazione. Lo abbiamo studiato tutti alle elementari, ma spesso dimentichiamo da dove veniamo. Non voglio fare l’ennesimo discorso che esalta i pregi di uno stile di vita meno massificato, poiché questa “modernizzazione” ci ha regalato molti pregi così come molte mancanze. Il mio intento è utilizzare questo breve confronto a mo’ di introduzione per un discorso più mirato.

Nelle tribù, in quelle passate così come nelle poche e ultime rimaste, nessun membro può divenire più ricco di un altro. Nessun membro può ricoprire cariche di prestigio che abbiano potere sugli altri (eccezioni a parte). Soprattutto, però, la specializzazione è minima. E non lo dico certo io. Lasciamo parlare Jared Diamond, dove nel suo libro più famoso troviamo questa rappresentazione di tribù classica: Non esistono mansioni o, ad esempio, artigiani a tempo pieno. Ogni individuo (incluso il capo villaggio dove previsto) partecipa alla raccolta, alla caccia e alla coltivazione del cibo. Ogni persona che ad esempio è brava a intagliare il legno, da il suo contributo anche alla coltivazione delle patate.

A questo punto mi sembra già di ascoltare un primo stizzo di qualche ipotetico lettore. “Eh ma che cavolo! Io non voglio fare il contadino, io sono nato per fare lo scrittore, mi è sempre piaciuto e voglio fare questo per tutta la vita”.

Tranquilli, ci arriviamo, ci arriviamo, lasciatemi procedere con calma e rigore.

Il prezzo da pagare

Le società umane hanno preso una direzione che vede gruppi di individui specializzarsi in determinati settori. Questo ha permesso il progredire della scienza, delle nuove scoperte, in particolare quelle tecnologiche dell’ultimo secolo. A dire di molti, questo ha aumentato il benessere della comunità, ed è vero. Anch’io credo che molti problemi sono stati risolti. È migliorato il benessere generale. Attenzione però, ho detto che è migliorata la situazione della società in generale, proprio nel senso di società come entità enorme, nel suo globale, nel senso del suo funzionamento e sostentamento. Al contrario credo che in molti campi, in molti settori la situazione del singolo individuo sia peggiorata rispetto al passato.

Anche se sono interconnessi, società e individuo non sono la stessa cosa. Sarebbe come paragonare una cellula con una persona. A questo riguardo sto proprio evidenziando l’esempio della specializzazione lavorativa, che in molti cercano di mascherare da vocazione professionale inserendola in discorsi in cui prevalgono termini come: talento innato, personalità, passione, richiamo ecc.

La produzione in massa delle grandi fabbriche ci ha permesso di aumentare la nostra comodità. Comprare la poltrona elettrica, il tv a diecimila pollici o avere sempre disponibile e a poco prezzo il ricambio meccanico dell’auto, ma d’altro canto miliardi di persone trascorrono 10 ore al giorno in completo schiavismo e infelicità. La società è migliorata nel darci piaceri e conforts ma ci ha sottratto le basi dell’umanità. Vedi il cinese o l’indiano di turno, dieci o dodici ore di movimenti robotici. Ma vedi anche ormai l’italiano (non siamo più negli anni novanta da un bel pezzo) tra straordinari non pagati, stress, mobbing, contratti ridicoli, ricatti, e nemmeno il tempo di andare al bagno. Questa è l’immagine del mondo del lavoro attuale, che sia Italia, Francia, Thailandia o Messico. Dove i paesi che sorreggono ancora una facciata di benessere seguono a ruota.

L’uomo trascorre otto / dieci ore al giorno a lavorare per comprarsi la macchina che gli serve per andare a lavorare (Balasso).

I danni della specializzazione

Tornando al singolo, quando un uomo sceglie di dedicare la maggior parte della sua vita a pensare e a fare sempre le stesse cose, non può che perdere la propria essenza. L’essere umano è per natura eclettico, onnivoro di azioni, passioni, metodi diversi per sopravvivere, spostarsi, divertirsi…

Non lo si può castrare a fare i calcoli tutta una vita. Non lo si può condannare a premere due pulsanti e a controllare che il pezzo di plastica non abbia sbavature e difetti per una vita intera. E lasciamo perdere i discorsi che dicono: suvvia, abbiamo pur sempre il tempo libero. Rispondo a questo linkando un articolo, non voglio togliere altro spazio all’argomento centrale.

Quando Jung diceva che la psiche dello specialista si è elevata o abbassata intendeva proprio questo. Si è elevata dal punto di vista del proprio contributo alla comunità. Si è abbassata come qualità della vita individuale. Per evidenziare il concetto, Jung nel suo Tipi psicologici prende in esame alcuni scritti di Schiller:

io non disconosco i vantaggi che, in fatto d’intelligenza, la generazione attuale, presa nel suo insieme, può vantare d’avere di fronte a ciò che di meglio ha prodotto il passato. Essa però deve affrontare la contesa a ranghi serrati e misurare il tutto col tutto. Quale singolo uomo moderno può farsi innanzi per competere, uomo contro uomo, con un singolo ateniese in fatto di umanità? Donde viene questa inferiorità dell’individuo nonostante la superiorità della specie umana presa nel suo insieme?

E ancora:

E con il limitare la nostra attività a un campo particolare, noi ci diamo, anche dentro noi stessi, un padrone che non di rado finisce con il soffocare le altre nostre disposizioni.

Sto portando alla luce questi esempi perché sono utili a comprendere l’essenza della specializzazione, per essere in grado di possedere una miglior comprensione riguardo concetti come talento innato, che qualcuno chiama vocazione, ed altri aspirazione, passione, carattere… facendone un confuso miscellaneo.

Possiamo osservare il contesto attuale e trovare veritiere le parole di Jung quando ammette che: non sono gli uomini che contano ma la loro sola funzione superiore (che oggi più che mai coincide col proprio lavoro). Nella civiltà collettiva l’uomo non si presenta come tale (tu non ti presenti come persona, alla società non interessa), ma è soltanto rappresentato da una funzione (lavoro), anzi egli s’identifica esclusivamente con questa funzione e rinnega le funzioni meno differenziate (altri aspetti di sé). Con ciò l’uomo moderno decade a mera funzione, appunto perché solo questa funzione rappresenta un valore collettivo e quindi essa soltanto accorda una possibilità di vita. Questa funzione principale gli procura la possibilità di un’esistenza collettiva, ma non la soddisfazione e la gioia di vivere che solo lo sviluppo dei valori individuali può dare.

Voglio fare lo youtuber

Pensiamo al carattere visionario di questi scritti, è incredibile! Intorno al 1920 Jung fece queste analisi, e oggi ne vediamo più che mai gli accresciuti sviluppi. Più che mai, oggi, l’uomo non è più uomo, ma una mera funzione pronta a essere inglobata, fagocitata e defecata dall’enorme organo chiamato società moderna.

Il liberalismo del capitale promette da sempre più libertà, ma la verità è che per l’ennesima volta siamo schiavi. Certo, siamo schiavi più comodi, con meno fastidi forse, ma ancora schiavi. Vedi l’esempio moderno dello Youtuber come simbolo d’oggi. Chi mai non potrebbe desiderare di farlo come lavoro? In comodità, dalla propria casa, con l’orario che voglio, come voglio, quanto voglio. Poter esprimere le proprie idee e il proprio animo creativo e poter vivere di questo. Il fatto è che non è proprio così. Lo sapevo prima e ne ho avuto la conferma anche dopo aver sperimentato seppur per breve tempo questa “carriera”.

Se vuoi essere visto e ascoltato veramente da qualcuno devi sottostare alle regole della piattaforma e soprattutto al mood in vigore. Soglia di attenzione alla Homer Simpson e argomenti beceri sono solo la punta dell’iceberg. Se non produci continuamente informazioni e intrattenimento in quantità non riuscirai a portare il pane a casa. L’amore per i tuoi argomenti e per il creare diverranno forzature, noia, e infine repulsione. Nella tua mente prevarrà il verbo devo e non il verbo voglio. Non avrai orari perché il tempo in cui non sarai al lavoro lo trascorrerai a tormentarti del fatto che non stai producendo, e se non produci non guadagni. Quindi il fare le cose come vuoi e quando vuoi sono solo mezze verità molto lontane dalla verità pratica.

Articolo consigliato: L’oltreuomo di Nietzsche, dove sta andando l’umanità?

Verso il talento innato e vocazione professionale

Abbiamo visto che la specializzazione è dannosa alla vita individuale, a ciò che noi siamo per noi, ma anche a ciò che noi siamo per le poche persone che ci conoscono intimamente. E mi fermo senza approfondire ulteriormente il discorso, cosa che ho già fatto numerose volte: L’energia del corpo umano è alla base dei lavori creativi.

Ora voglio collegare il discorso specializzazione alla vocazione professionale. Sono proprio questo tipo di retoriche e concetti che hanno contribuito alla crescita esponenziale della specializzazione. Un sotterfugio prima, chiamato vocazione, carattere congenito o scopo, e una promessa di felicità poi, chiamata denaro, prestigio, confort…

L’importanza che oggi diamo alla nostra persona quando parliamo di lavoro è tutto. Ne va del nostro ego, di ciò che siamo per gli altri, di come veniamo percepiti. La situazione lavorativa può essere strumentalizzata come una rivincita, verso i compagni di scuola che ci prendevano in giro. Verso la fidanzata che ci ha mollato per un altro che ricopre una posizione meno prestigiosa della nostra. E cosa ne pensiamo del concetto di vocazione professionale che ha sempre a che fare con un talento innato o una predisposizione a un certo tipo di mansione?

Io lo vedo come uno dei maggiori supporti di questa retorica. Il fatto che pensiamo che una persona nasca predisposta a un qualche tipo di lavoro è una favola usata per farci accettare questa mostruosità, questa gabbia fatta di formazione scolastica al lavoro, specializzazione e azione ripetitiva.

Fate caso a come il termine talento (o vocazione) sfoci sempre in argomenti lavorativi. Se un bambino è bravo a giocare con la palla potrebbe diventare un calciatore professionista. Se uno è bravo a battere il tamburo un percussionista pagato…

Questo corrisponde con la credenza a una qualche sorta di anima che “nasce” prima del corpo, e che è già predisposta a certi tipi di cose e negata per altre. Si parla di caratteristica innata e unica per ogni individuo. Si tratta secondo me dell’ennesima narrativa che riempe il singolo d’importanza (egoica) sulla carta, ma che poi nei fatti concreti lo rende infelice.

Chi o cosa caratterizza le nostre predisposizioni?

Chiediamoci come mai un uomo delle tribù non crede di essere un coltivatore migliore di tutti gli altri, o nato specificamente per fare quello. O il perché qualche altro uomo di tribù non si crede essere nato esclusivamente per la caccia. Di possedere questa capacità intrinseca concessa a pochi. E, fatto ancora più lampante, perché nessun uomo di tribù nasce con la vocazione dell’architetto, o dato le limitazioni del suo ambiente: un costruttore di capanne? Perché nessuno nasce con la vocazione del filosofo, dello scultore, dell’insegnante? E ancora, perché nessun uomo d’oggi nasce con la vocazione dell’osservatore di nuvole, del corridore nei boschi o del caprioliere su erba? Perché queste anime nascono tutte con il talento o l’aspirazione dell’avvocato, della ballerina, dell’attrice, del pianista? Chi è a delimitare in certi campi specifici questi talenti dell’anima?

Articolo consigliato: Ritornare umani per ritornare a sentirsi felici.

Qual è l’argomentazione? Lo chiedo, sto domandando. Forse una di tipo settecentesca, che i facenti parte delle tribù sono arretrati e quindi non hanno un’anima? O forse, potrebbe essere che non esiste nulla di innato, ma è solo l’ambiente e la cultura in cui vivi a elargire la tua propensione e in seguito mansione?

Se ancora non si è capito, la colonna principale di questa analisi è: la retorica comune sulla vocazione è l’ennesimo pretesto per digerire l’ennesima situazione di prigionia. Per abbellire la finestra delle gabbia che ci siamo costruiti attorno, come dice qualcuno.

Esempi di passioni che vengono trasformate in lavoro ce n’è a milioni, tuttavia facciamo attenzione: le vere passioni non vanno confuse con una sorta di evasione dalla realtà. Le passioni sono ciò che rendono grande la realtà, la vita, non sono un mezzo per evadere, non sono qualcosa che ci porta al di fuori, in una vita migliore. Questa è l’ennesima illusione.

L’ideale del sogno americano, lavoro, soldi e divertimenti è la trappola dell’ultimo secolo, ma fermiamoci qua, perché anche di questo ho scritto ed è già stato scritto abbastanza.

Un foglio bianco per essere riempito dal contesto

Ribadisco le domande: perché nessuno di noi italiani nasce con la passione di fare l’esploratore, l’arrampicatore di alberi, il nuotatore di laghi, il costruttore di astronavi? Perché invece la vocazione è sempre il cuoco, lo sceneggiatore o a esempio il contadino? Non è che sei nato con l’archetipo dello chef impresso nella tua anima, è solo una delle opzioni più gettonate e presenti del luogo in cui sei cresciuto. Il tuo talento non è inventare storie perché è qualcosa di unico speciale e congenito come vuole far credere la retorica comune, no, ma perché fin da bambino hai vissuto nel mondo dell’intrattenimento, fatto di film, fumetti, libri e serie tv. Non è che coltivi i campi perché la Dea dello zucchino è entrata nel tuo spirito e ti ha fatto nascere con quello scopo, ma perché tuo padre si occupava di questo, ed è la realtà che tu hai vissuto fin dai tuoi primi giorni.

Penso che l’essere umano nasca “neutro” e che non esista nessun talento innato. Neutro in relazione a questo discorso, non certo neutro in senso universale. Infatti ognuno di noi, seppur diverso dagli altri, ne è perfettamente uguale, parlando dei sensi con cui percepiamo la realtà. (Per capirci in poche parole: vedi le categorie a priori spiegate da Kant già nel lontano settecento). Per fare un esempio semplicistico, tutti noi umani percepiamo la realtà in modo perlopiù visivo, mentre un canide perlopiù olfattivo.

Questi concetti di personalità intrinseca sono nati dalla collettività per sostenere se stessa, il suo progresso, il benessere di pochi sul sacrificio di molti. Quale scusa migliore può esserci nello schiavizzare gli altri col pretesto di un’importanza individuale? Sei unico e speciale perché sai fare questo e solo questo, e lo sai fare meglio di tutti gli altri. Non essere stupido, devi sfruttare questa predisposizione, si tratta del tuo carattere innato, sei nato così.

Articolo consigliato: Pensare con la propria testa: l’ultimo dogma.

Facciamo caso a tutti i discorsi sull’essere guerrieri e combattenti di cui ho scritto molto in questo blog, esortando a starne molto attenti. Sono tutti perfetti nel dar man forte a questo tipo di correnti di pensiero. Per non parlare di quella spiritualità markettara e tossica che parla di vite precedenti e future, che illude sulla vocazione della vita per andare così a far sacrificare l’unica vita presente a favore della collettività, o del gruppo spirituale.

Epigenetica VS genetica

Per usare un parallelismo più scientifico, sono una persona che direziona lo sguardo più sui concetti di epigenetica che sulla genetica classica, se così si può dire. Certo, riconosco l’importanza dei geni con cui nasciamo, che determinano molti aspetti principali, ma non molti conoscono l’epigenetica. Manca sempre a mio avviso una buona dose di attenzione a quello che è il contesto del soggetto.

Questo è solo un esempio lungi da un discorso scientifico mirato. Si tratta di una rappresentazione, dove abbiamo la genetica classica come esempio di una predestinazione, di un’anima che nasce già con uno scopo, una missione, un talento innato. E d’altra parte invece l’epigenetica, che rappresenta il contesto come causa primaria dello sviluppo della personalità. In passato ho spiegato come alcune parti della mia personalità siano state create da un cambio repentino del mio contesto di vita.

Sono le stesse ricerche epigenetiche che ci fanno comprendere come l’ambiente, fin dalle prime fasi di vita, modelli e strutturi l’epigenoma dei principali sistemi cerebrali deputati all’organizzazione dei comportamenti, all’apprendimento alla memoria, alle relazioni, in definitiva all’interfaccia col mondo.

Alcune righe dal testo Epigenetica e Psiconeuroendocrinoimmunologia spiegano molto meglio del mio lessico non competente con gli addetti ai lavori ciò che intendo.

La psicologia fin dal suo sorgere come scienza autonoma, ha messo in luce con Freud l’importanza delle prime esperienze di vita nel plasmare la modalità di regolazione delle emozioni. A partire dagli anni quaranta lo studio dei legami madre bambino e famiglia nel suo insieme si sono fatti più approfonditi, arrivando a tipizzare diversi stili di attaccamento. Questi formeranno la base per lo stile di regolazione delle emozioni che quel bambino userà non solo nell’infanzia, ma anche quando sarà adulto. Quello che accade nelle prime fasi della vita è, molto importante, nel senso che acquisiamo precocemente modelli di regolazione delle emozioni e dello stress che ci condizioneranno per sempre.

Non è mio interesse esaltare alcune branche della psicologia a scienze perfette, anzi, se leggerete l’articolo precedentemente evidenziato sui pericoli della psicoanalisi freudiana lo potrete capire. Questo non toglie ciò che secondo me è evidente, per chi si sia soffermato qualche anno sulla questione. Ma basta anche qualche mese intenso.

Le eccezioni sono eccezioni perché non conosciamo propriamente le loro modalità di sviluppo

Potrete convenire con me che una persona non nasce con la vocazione di, o col carattere o con la propensione del molestatore. Si vede come nella maggioranza dei casi loro stessi siano stati molestati in tenera età. E questo vale sia per quanto riguarda i disturbi così quanto per i pregi, i talenti. Siamo guidati in tutto e per tutto dalle emozioni, e non a caso ho inserito le righe poco più sopra. Un talento può svilupparsi soltanto se sospinto da un’emozione di piacere e divertimento. Se non altro al principio è così.

E degli altri pochi cosa vogliamo dire, di quelli che hanno questi disturbi senza essere stati abusati? Dico solo che la realtà è complessa, molto complessa. In ogni singola vita umana abbiamo un intreccio di variabili unico che risulta impossibile capire totalmente. Ma non è qua che dobbiamo concentrarci, ma sugli schemi ripetuti che portano, nella maggior parte, risultati uguali o molto simili. Non è che se un molestatore non è mai stato abusato da bambino allora questo caso si trasforma da eccezione a regola, sia chiaro. Ma sono di certo intervenuti fattori nella sua vita, che probabilmente in tenera età erano in qualche modo simili alle meccaniche dell’abuso. Anche se alla logica apparente potrebbero sembrare qualcosa di totalmente diverso. Come ho detto la realtà è complessa e noi come individuo ne abbiamo una vista parziale, una piccola porzione.

Nessuna personalità innata, nessuno scopo predeterminato: nessuna speranza di successo

Questa mia analisi non vuole essere un pretesto per l’egoismo, per il menefreghismo della situazione collettiva. A mio parere una persona può essere veramente utile alla collettività quando è soddisfatto della propria vita, una soddisfazione che esiste soltanto quando l’esistenza non è castrata. Io invece vedo individui profondamente castrati, nel senso che sono repressi, poiché devono continuare a sopravvivere per mezzo di un unico e solo aspetto della vita sacrificando tutto il resto. Fino a quando si seguirà la speranza del successo e di una soddisfazione futura che però ci rende insoddisfatti ora, allora la situazione non cambierà. È proprio quando non siamo più morbosamente attaccati alla speranza di avere successo che riusciamo ad accorgerci del mondo e a godere della sua compagnia.

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Se siamo veramente intenzionati a vivere una vita soddisfacente, dobbiamo far cadere quei paradigmi che ci hanno istruito in modi che avvantaggiano soltanto il sostentamento di questa società moderna. Della crescita continua, allo sperpero continuo, alle risorse utilizzate in settori totalmente inutili. O come abbiamo visto, da quelle concezioni di talento innato e vocazione professionale, molto utili alla società nel globale e venefiche per il singolo. Allontanarsi da quel sacrificio di oggi per un domani migliore, ma che i fatti dimostrano essere un paradigma poco veritiero. Non dobbiamo mai dimenticare allora che ogni cosa è il fine, mai il mezzo.

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